L’autostima dipende da fattori interni, cioè dagli schemi cognitivi della persona, e da fattori esterni, come ad esempio i “successi” che otteniamo.
Lo psicologo e filosofo statunitense William James (1890-1983) definiva l’autostima come il rapporto tra il “Sé percepito” e il “Sé ideale” di un individuo: il Sé percepito riguarda la conoscenza di sé ed include abilità, caratteristiche e qualità che sono presenti o assenti; il Sé ideale fa invece riferimento ad una immagine idealizzata di se stessi, colui o colei il quale ci piacerebbe essere. L’ampiezza della discrepanza tra il come ci vediamo e il come vorremmo essere determina il grado in cui siamo soddisfatti di noi stessi. Se tendiamo a svalutarci, ci allontaniamo dal Sè ideale, soffrendone. Al contrario, vi sono persone che si sopravvalutano, convincendosi di aver raggiunto la propia immagine ideale di sè, ostentandola soprattutto in pubblico. Tuttavia nel profondo dell’animo di tali soggetti accade che questa illusoria consapevolezza si scontri con un’ insofferenza di fondo che genera insicurezze.
In realtà spiegare le dinamiche psichiche che regolano l’autostima non è così semplice poichè prendono parte a questi complessi meccanismi anche i fattori ambientali, i quali interagendo con l’individuo contribuiscono a migliorare o peggiorare le prestazioni personali.
Il sociologo statunitense Charles Cooley (1864-1929), a tal proposito, elaborò il concetto di io riflesso (looking glass-self) che prende spunto dalle suddette idee di James. Secondo Cooley il nostro Io si construisce, vive e si mantiene nelle opinioni degli altri. Secondo tale teoria il modo in cui consideriamo noi stessi dipende per gran parte dal modo in cui ci vengono “riflesse” dagli altri i nostri comportamenti ed atteggiamenti. Secondo Cooley, quando veniamo trattati con noncuranza o disprezzo, quando veniamo giudicati severamente dagli altri tenderemo di riflesso ad adottare lo stesso punto di vista che ci viene comunicato. Accade così che ciò che gli altri pensano di noi diviene gradualmente ciò che noi pensiamo di noi stessi. L’immagine che ognuno ha di sé è in continuo divenire. Essa prende forma sulla base delle nostre opinioni e delle risposte che riceviamo dagli altri.
L’autostima può quindi essere vista come uno schema cognitivo-comportamentale appreso durante le interazioni ambientali.
Abbiamo detto che il pensiero degli altri influenza quello che noi pensiamo di noi stessi, tuttavia è vero anche l’inverso. Gli altri, infatti, sono altrettanto influenzati dalle opinioni che noi abbiamo su noi stessi e tendono a vederci come noi ci vediamo.
Avere un alto livello di autostima pare ci renda più sicuri, più desiderabili agli occhi degli altri ma soprattutto pare ci aiuti a rispondere adeguatamente agli ostacoli ed alle sfide del quotidiano. L’autostima positiva è infatti considerata da molti studiosi indice di un buon adattamento socio-emozionale.
L’autostima inoltre sembra essere collegata ad alcuni campi del benessere inviduale come quello della “salute psicologica” (la presenza di bassa autostima nella depressione determina una valutazione eccessivamente critica e negativa del Sé) e della “performance scolastica” (numerose ricerche effettuate attestano che vi sia una correlazione positiva tra buona autostima e voti più alti a scuola).
Ritengo che l’ autostima vada di pari passo con la crescita della personalità, cioè quel processo profondo ed affascinante che lo psichiatra e psicoanalista svizzero Carl Gustav Jung definiva “individuazione”. Cosa intende Jung per “processo di individuazione”? Ogni fase di vita pare esigere un lavoro personale per giungere ad un livello più maturo e stabile di autostima. Solitamente tale processo comincia nella seconda parte di vita ma quando lo sviluppo è turbato, o in tanti altri casi, esso inizia prima. Motivo per cui non è possibile stabilire una regola generale. Il processo di individuazione può essere definito come uno stadio dello sviluppo che nasce dal conflitto tra i due fatti psichici fondamentali: il conscio e l’inconscio. In molti soggetti l’inconscio è spesso represso e danneggiato dalla coscienza. Bisogna tener presenti che l’uno e l’altro sono aspetti fondamentali della vita. La non integrazione dell’uno o dell’altro determina nell’individuo una mancanza che genera insicurezza e bassa autostima. Jung era solito dire che il modo in cui si debbano armonizzare il Conscio e l’Inconscio non può essere indicato da una ricetta. Si tratta di un processo vitale e irrazionale che si esprime in ognuno di noi simbolicamente. Compito dello psicologo è interpretare e contribuire ad un tale processo. Tuttavia il percorso riferito è più difficile a dirsi che a farsi; in tutti i casi infatti la nascita di una tale intuizione suscita l’irritazione di chi ne è al di fuori, poiché disturba l’ordine delle cose. L’inerzia dei vecchi modelli collettivi che si palesa in commenti oppositivi e negativi riguardo alle scelte intraprese (come quando ad esempio riceviamo critiche dalla famiglia d’origine, dai colleghi di lavoro o dal proprio partner) incita infatti l’individuo ad agire secondo le vie già tracciate, appartenenti al ben conosciuto e meno spaventoso senso comune.
Jung paragonava il tal modo di agire oppositivo al rancore del gregge per la pecora che sceglie un’altra strada. Per quel tanto che siamo animali gregari portiamo sempre con noi il conflitto tra l’inerzia che ci spinge a restare nel gregge e la novità sconvolgente della realizzazione individuale. Nella vita di tutti i giorni la pecora è colui o colei che viaggia controcorrente, libero dai condizionamenti e dedito ad intraprendere ogni attività che gratifichi anche le parti più istintive di sé (nei limiti del possibile e nei modi in cui sia per lui tollerabile). Un modo di vivere la vita così completo e intimamente soddisfacente per sé innalza il livello di autostima e genera gradualmente una indipendenza di pensiero assai funzionale al processo di individuazione.